INTERVISTA A SERGIO MASSIRONI
Nel contesto giuridico contemporaneo in cui il conflitto assume forme nuove e spesso invisibili, il diritto è chiamato a riscoprire la sua vocazione originaria: non solo regolare, ma riconciliare. In questo orizzonte, il pensiero di Don Sergio Massironi - teologo a servizio della Segreteria di Stato Vaticana — offre al nostro laboratorio una chiave di lettura preziosa che intreccia teologia, giustizia e umanità. In questa intervista ci ha ricordato che la mediazione non è solo tecnica, ma gesto; che il diritto non è solo norma, ma relazione; e che la pace non è un concetto, ma un cammino da percorrere insieme, a partire dai volti e dalle ferite del mondo. Per avvocati, mediatori e studenti, questo dialogo è un invito a pensare la giustizia come spazio generativo, capace di custodire la dignità dell’altro e di trasformare il conflitto in riconoscimento.

"“la mediazione non è una tecnica neutra, ma un gesto che implica esposizione, rischio e responsabilità"
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Prima di iniziare vorrei ringraziarti per l'opportunità che ci offri di dialogare insieme di conflitto che, come tu sai perché sei un grande amico del nostro laboratorio, è il nostro focus; e ci dai l'opportunità di farlo in un momento storico in cui il conflitto ha assunto forme nuove anche nella comunicazione, nel dibattito politico, in quello pubblico e anche il diritto è chiamato a riscoprire la sua vocazione originaria che non è solo quella di regolare ma di riconciliare.
Il tuo pensiero in questo orizzonte potrà fornire ai fruitori del nostro laboratorio delle chiavi di lettura preziose, sia a chi si forma alla giustizia, parlo degli studenti, ma anche a chi esercita come professione e come servizio.
Don Sergio rappresenta una delle voci più innovative e contemporanee del pensiero cattolico e sociale italiano, seppur profondamente radicato nella tradizione.
È prete della diocesi di Milano, è al servizio della Santa Sede presso la Segreteria di Stato, è docente di teologia presso l'Università Cattolica di Milano, presso la Pontificia Facoltà di Teologia dell'Italia meridionale, editorialista dell'Osservatore Romano, dirige la collana Teologia delle periferie per Castelvecchio ed è cappellano del Politecnico di Milano per la Sede di Lecco. Ma soprattutto è direttore del progetto internazionale Fare teologia dalle periferie esistenziali promosso da papa Francesco che coinvolge 90 teologi, 40 città del mondo, l'ascolto diretto di migranti, donne vittime di violenza, di emarginazione, la comunità LGTBQ: un progetto che porta il cristianesimo nei problemi del mondo.
Facendo un giro nelle tue pubblicazioni, nelle conferenze, nelle interviste, il filo rosso che le lega, è la tua convinzione che teologia, Chiesa e impegno civile debbano dialogare per decentrarsi per uscire da sé e avviare dei processi soprattutto attorno ai grandi temi: la pace, le periferie sociali ed esistenziali, il dialogo interreligioso, interculturale, la dignità dell'uomo.
Grazie per questo invito, per questa possibilità. Raccolgo così il testimone e insieme la provocazione che mi hai lanciato, perché partiamo un po' dal mio terreno per venire poi su terreno comune, spero. Questo terreno della teologia che hai evocato è originariamente implicato con il luoghi della vita; non per occuparli, come è avvenuto quando la teologia è stata usata e avviene ancora quando le religioni sono utilizzate come strumenti di potere, ma perché, proprio a rovescio di queste strumentalizzazioni, il Dio biblico nel rivelarsi si fa conoscere come un Dio che non sopporta l'ingiustizia, che freme di fronte agli abusi del suo nome, che rovescia - come canta Maria di Nazareth - i potenti dai troni. In questo senso, non si tratta di qualcosa di "secondo", cioè di un'attualizzazione del messaggio originario, ma il modo in cui al roveto ardente Mosè deve fare esperienza di questo Dio che ha smarrito, smarrendo anche se stesso, nel corso della sua vita, anche avendo usato lui stesso violenza.
È l'esperienza di un Dio che freme di compassione. Ecco, il tema della compassione, del sentire il dolore altrui è alla radice dell'esperienza di un Dio di cui dobbiamo pensare in modo sempre nuovo l'onnipotenza.
Tu scrivi che i grandi cambiamenti della storia si sono realizzati quando la realtà è stata vista non dal centro, ma dalla periferia. E scrivi ancora che "dal margine si vede meglio".
In ambito giuridico questa prospettiva può essere rivoluzionaria: qual è nella tua esperienza diretta tra le periferie esistenziali e sociali del mondo, l'aspetto più inatteso che hai imparato rispetto al rapporto tra il margine e il centro e in quali modi vedere la realtà dai margini ci aiuta a comprendere meglio anche le dinamiche di pace e di conflitto a livello globale?
L'intuizione che rilanci, lo ricordiamo, è di Papa Francesco. Viene dalla sua esperienza che fa sintesi e rilancia su scala planetaria il cammino delle chiese latino-americane, che hanno osato, per prime, trasformare il primato dei poveri in un primato non solo della cura per i poveri, ma del pensiero, nella parola dei poveri; visti come soggetti in grado di avere della realtà una propria percezione e una propria comunicazione.
Un benedettino belga - quindi siamo in una cultura profondamente diversa da quella latino americana - un grande teologo morto pochi anni fa, Ghislain Lafont, elabora un'idea molto simile. Riconoscendo in Papa Francesco un principio di piccolezza, 2017 descriveva la sua capacità di intuire e di riconoscere che ai margini si trovano le faglie di un sistema. Rispetto a un sistema potente e vincente che tende a essere un sistema chiuso, proprio ai suoi margini, si vedono i limiti stessi di ciò che nel centro sembra essere solido ma che non ha fino in fondo presa su una realtà complessa e, alla fine dei conti, indominabile - grazie a Dio - soltanto da qualcuno.
Da questo punto di vista, unendo queste due intuizioni, queste due esperienze, nelle varie discipline scientifiche credo si possa riconoscere come la realtà non possa essere studiata con approcci di carattere totalitario, con una trasformazione della razionalità, del logos (che sia quello teologico o quello scientifico, quello giuridico) che voglia ordinarla secondo un unico principio. E' proprio ai confini delle nostre rappresentazioni della realtà, dove sono messe in crisi, che si intuisce tutto ciò che lasciamo fuori, tutto il rimosso, tutta quella parte di mondo che noi, rifiutando di vedere, disconosciamo anche nelle sue potenzialità, nella sua capacità di essere qualcosa che non vediamo ancora. Questo penso che dal punto di vista, non semplicemente solidale o caritatevole, ma sistematico significa quello che già Benedetto XVI, per rimanere in ambito cattolico, aveva intuito. La necessità di allargare la ragione non è semplicemente renderla più perfetta o più potente ma significa avere più accessi e più contributi e forse anche più forme di intelligenza di quelle che molto spesso abbiamo standardizzato.
Una tua espressione profuma di Concilio: la Chiesa non è chiamata a stare al centro ma a stare in mezzo; non come potere che si impone ma come presenza che si espone. Venendo ai conflitti di oggi in Ucraina a Gaza, i processi di pace sono bloccati dalla logica di potere di cui dicevi poc'anzi e da una certa sfiducia non solo tra le parti ma anche nei confronti della diplomazia, attraversata da detensioni e che ha perso credibilità. Man mano che il diritto internazionale perde credibilità, perde credibilità la diplomazia. La teologia delle periferie che tu hai contribuito a sviluppare con la tua ricerca, sembra suggerire che il dialogo credibile nasce non dalla forza ma dalla prossimità, dalla vicinanza: quali sono secondo te, le condizioni perché questo modello possa essere trasferito alla prassi politica e diplomatica e quali sono gli spazi che il Vaticano, luogo in cui profezia evangelica e realismo geopolitico si incontrano, può incidere negli scenari attuali con la sua mediazione?
Senza sostituirmi alla competenza specifica di chi è esperto di diritto, in particolare di diritto internazionale e di mediazione, raccolgo quel riferimento, quel profumo di Concilio che hai sentito e rimango per un momento sul terreno ecclesiale: la caratteristica del Vaticano II è quella di modificare l'autopercezione che la Chiesa aveva di sé stessa.
Venendo a Roma per la prima volta migliaia di vescovi da tutto il mondo, si è visto, si è percepito dall'interno della Chiesa che una rappresentazione gerarchica e piramidale della Chiesa cattolica non era semplicemente insufficiente, ma era irrealistica rispetto a tutta la vitalità di comunità che sono "in mezzo"… in mezzo alla vita, in mezzo al mondo contemporaneo e che lì accolgono la rivelazione.
La continuazione promossa da Papa Francesco di quella esperienza, attraverso il processo sinodale - e rimango ancora per il momento in ambito ecclesiale, ma credo sia interessante come forma di convergenza tra comunità umane diverse anche per chi non crede - ha messo in campo per anni un lavoro che, oggi, è di estremo interesse anche per le democrazie. Un lavoro di sistematico e reciproco ascolto che esce da una tentazione, che invece si produce costantemente a livello di vita pubblica, che è quella del dibattito; riconoscendo che per dialogare non è sufficiente dibattere. Il dibattito ha in sé il grande rischio di trasformare le argomentazioni in una volontà di prevalere e vincere con la propria argomentazione; in una dinamica di confronto competitiva delle ragioni dell'uno sulle ragioni dell'altro. Introducendo una metodologia della conversazione, invece, il processo sinodale ha educato a farsi fecondare dalla presenza altrui, a portare e argomentare le proprie ragioni sempre mettendo in conto le argomentazioni altrui, facendo spazio alle argomentazioni altrui e non in una logica biunivoca ma riconoscendo la complessità.
Questo rispetto al tema dei conflitti mi sembra molto importante, perché aiuta a depolarizzarli e aiuta soprattutto a riconoscere quello che Papa Francesco disse molto chiaramente già nella sua prima esortazione apostolica Evangelii Gaudium: i conflitti non sono un problema. Conflitto e guerra sono due cose diverse: la guerra è un modo, tra altri possibili, di affrontare il conflitto; esiste il migliore dei modi di attraversare il conflitto che forse dovremmo reimparare, non solo nella chiesa ma anche nella vita pubblica, che è quello di uscire trasformati da quell'opportunità che ogni conflitto rappresenta. Ogni conflitto mette in campo questioni aperte che toccano nel vivo delle persone o delle comunità ehm una struttura di incontro che favorisca la conversazione piuttosto che il dibattito, - gioco ancora su questa differenza - per creare le condizioni di possibilità per uscire tutti migliori e non in una logica che invece è profondamente irrealistica di vincitore e sconfitto. Non c'è nessun conflitto, credo se anche solo guardiamo all'ultimo secolo, in cui qualcuno possa dire di avere vinto davvero. Possiamo realmente imparare e che si vince solo insieme, se dobbiamo dirla con uno slogan..
Hai scritto che la mediazione non è solo una tecnica neutra ma è un gesto che implica un'esposizione, un rischio, una responsabilità e che, quindi, la pace non è solo una parola da pronunciare ma un processo da costruire. Da qui nasce proprio la trasformazione del conflitto. Abbiamo appena dettoche la diplomazia sembra impotente; ad un incontro con alcuni giovani hai parlato di una diplomazia che rischia di diventare un gioco di guerra, allontanandosi da quella metodologia della conversazione che fa spazio all'argomentazione altrui . In quest'ottica la mediazione rischia forse di ridursi solo ad una formalità procedurale, solo forma e non sostanza che trasforma il conflitto. Rispetto alla tua esperienza, quali sono le condizioni perché la negoziazione, la mediazione anche in ambito giuridico, ritrovi credibilità e diventi spazio di trasformazione che va anche oltre la retorica della pace?
Il primo elemento è crederci! Stimare la mediazione e quindi pensarla non come la rinuncia a qualcosa che potrebbe essere più forte, ma come una forma piena di umanesimo, di civiltà, alternativa a forme più basse e barbare di convivenza, di incontro, di soluzione dei conflitti. Questo è un grande lavoro educativo, un grande lavoro culturale che inizia fin dai bambini, fin dai piccoli conflitti che possono sorgere fra famiglie, fra persone, ma addirittura all'interno delle case. Bisogna far vedere quante cose fioriscono attraverso nei processi di mediazione e distinguerli dalle forme "interessate" di compromesso che screditano la mediazione, perché gettano l'ombra di interessi su cui venire a patti. Io credo che sia molto importante; soprattutto in un tempo che tende a sovrastimare la ragione bellica, l'esercizio della forza, addirittura un riarmo mentale e materiale preventivo. È come se non vedessimo che questa ossessione del nemico, che questa percezione di non avere gli strumenti per rispondere agli attacchi altrui, non ci rende più incerti, e può essere sostituita dall'esperienza che la pace che si costruisce attraverso continue mediazioni. Come diceva Simone Weil fragile e allo stesso tempo un' equilibrio instabile. Questo gusto per l'equilibrio instabile, questa passione per una vita che è dinamica, e anche faticosa per questo, ma che è un continuo ritrovare equilibri, è molto più fecondo ed è molto più realistico rispetto ad altre rappresentazioni molto elementari ma molto ideologiche che sembrano prevedere che le cose sono ferme, sono immobili, sono sicure, che siamo difesi, che siamo certi, fino a quando non interviene qualcuno con cui confliggere, combattere, come se si trattasse dell'unico modo possibile di vivere. In realtà l'arte di convivere è sempre è un'arte di una tessitura, di mediazione. Si tratta di diventarne consapevoli,
In Sulle tracce di Dio usi un'espressione bellissima: ricomporre il volto di Dio significa raccogliere i mille volti dell'uomo - e ancora - il volto dell'uomo è il luogo in cui Dio si lascia intravedere. Come possiamo concepire il diritto non come un'astrazione ma come una risposta al volto concreto dell'altro e in che modo questa prospettiva può trasformare la giustizia in relazione mentre in questo momento nei 60 teatri di guerra il diritto è un'astrazione e non tiene conto del volto concreto di chi soffre, di chi è sotto le bombe ed è vittima dell'ingiustizia della guerra.
Il tema della dignità già in questa intervista l'ho legato, e ormai lo faccio quasi spontaneamente, al tema del dolore altrui. Mi sembra che da diversi grandi del '900, almeno dopo Auschwitz, venga questa esigenza di far sì che il tema della dignità, che è fondamentale, non diventi tema astratto. E perché sia concreto, credo che per l'umano si tratti di riconoscere come il dolore altrui, per il modo in cui siamo fatti, si impone alla nostra coscienza; siamo in grado di esserne turbati e lì ha sede - diceva ancora Simon Weil - il grido che nella carne umana risveglia la coscienza della dignità e della responsabilità: l'obbligo a rispondere.
Fratelli tutti parte dall'immagine del samaritano che nel commuoversi non ha semplicemente un moto di generosità, fa ciò che è dovuto ed è scandaloso quando questo non avviene.
Mi pare che questo sia un elemento fondamentale per ripensare in modo non astratto il tema del diritto. Due riferimenti.
Uno è giuridico. C'è un libro che mi ha colpito di recente di Tommaso Greco che rilegge il diritto come legge della fiducia, mostrando come la natura relazionale della vita sia alla base del diritto stesso e, quindi, come il diritto non sopravvenga esternamente a questa dinamica relazionale e non nasca semplicemente per regolare i conflitti ma per fare germogliare tutto quello che all'interno della vita umana è socialità, è relazione.
In ambito biblico, mi sembra importante non dimenticare che quella che in italiano chiamiamo
legge nel Primo testamento, i 10 comandamenti, in ebraico è la Torah, è la rivelazione.
La norma stessa e il comandamento rivelano qualche cosa di noi stessi e della bontà della vita. Non si tratta solo di un "NON", ma di una promessa, di ciò che possiamo essere, di ciò che possiamo diventare solo insieme.
Questi diversi livelli, queste diverse sorgenti della spiritualità e della moralità, abbiano bisogno di riconnettersi tra loro, rispettando ognuna il linguaggio dell'altra e l'ambito specifico. In realtà, se facciamo attenzione, le diverse culture umane hanno alla propria radice, nella propria storia, il guadagno di questa consapevolezza che la legge della fiduciao dell'incontro viene prima della regolamentazione formale dei conflitti, dei divieti. Perché prima del conflitto viene la reciprocità.
Il tuo contributo alla Segreteria di Stato Vaticana ti porta a contatto con i Papi, prima con Francesco adesso con Leone; è banale chiederti quali continuità e quali discontinuità vedi in questo percorso. Ti chiedo piuttosto come il loro magistero possa ispirare una cultura giuridica che non si limiti a gestire il conflitto, ma lo trasformi in un cammino di riconciliazione.
Ogni Papa, almeno per come oggi il papato ha preso forma, è insieme due cose.
È un capo di Stato (forse è la cosa secondaria che sicuramente è legata al suo essere Vescovo di Roma che è poi il secondo aspetto) che è ciò che lo proietta di più sul piano internazionale. In questo senso, il Vaticano e la Santa Sede da tempo hanno sviluppato un profilo internazionale nel segno della mediazione dei conflitti e della cultura giuridica dell'incontro e del dialogo. Questo non semplicemente tra due Pontefici, ma la storia della Chiesa almeno - si potrebbe andare anche prima - dal Concilio Vaticano II in poi mostra una continuità al di là del singolo Papa.
Poi c'è l'aspetto più pastorale del Vescovo di Roma e della Chiesa come presenza in molti territori del mondo, in quasi in tutto il mondo, per cui la figura del Papa è quella di un leader spirituale.
Qui, il profilo di Papa Francesco ha avuto delle caratteristiche molto legate al momento in cui è stato chiamato a questo compito; non dimentichiamo che le dimissioni di Papa Benedetto XVI furono un terremoto e chiesero un pontificato di radicale discontinuità e rinnovamento. Papa Francesco ha portato tutta la sua esperienza pastorale - come diceva lui - "dalla fine del mondo" per mettere nel campo della Chiesa "una fine di un mondo" e rendere la Chiesa estroversa, quindi più concentrata sulle sfide che gli esseri umani, e tra loro i cristiani, hanno di fronte anziché sui propri problemi interni.
Leone XIV viene eletto scegliendo un nome che esplicitamente lo lega al grande cammino della Dottrina Sociale della Chiesa, come missionario in Perù e allo stesso tempo come statunitense di origine, mi sembra che abbia questa quasi biografica vocazione a costruire ponti; come dice lui a depolarizzare un mondo che ha bisogno di riconciliazione.
Il lavoro in continuità con Papa Francesco che vedremo e che interagisce continuamente con la sfera civile e politica è un lavoro di ricostruzione e di ritessitura che esalterà quell'aspetto della mediazione di cui parlavamo prima e non del compromesso. Possiamo dire del salto di qualità, dell'uscita ciascuno dai propri arroccamenti per venire a quella quiete dopo la tempesta che è necessaria perché tutto rifiorisca. E noi dobbiamo già cominciare a guardare oltre la terza guerra mondiale a pezzi, sperando che non si approfondisca il suo aspetto distruttivo, già la terra e l'umanità soffrono troppo delle ingiustizie, delle diseguaglianze per immaginare che possa durare troppo ancora. Dobbiamo veramente immaginare, come dopo la seconda guerra mondiale, cosa e come ricostruire. Lui non ha proposto soluzioni imposte, ha esortato alla ripresa dei negoziati e quindi quel depolarizzare le posizioni, che in questo momento è assolutamente quello che serve.
BREVE BIOGRAFIA
Prete della diocesi di Milano, a servizio della santa sede presso la Segreteria di Stato. All'attività di ricerca internazionale - è direttore del progetto Fare teologia dalle periferie esistenziali, promosso da Papa Francesco - unisce quella accademica come docente di teologia presso l’Università Cattolica di Milano e la Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale, editorialista de L’Osservatore Romano, direttore della collana Teologia dalle periferie (Castelvecchi), e cappellano universitario al Politecnico di Milano – sede di Lecco. La ricerca vaticana “Fare teologia dalle periferie" ha coinvolto 90 teologi in 40 città del mondo, in ascolto diretto di migranti, detenuti, donne vittime di emarginazione e violenza, persone lgbt, margini e nuovi linguaggi del cristianesimo.

