INTERVISTA A MICAELA FRULLI
Abbiamo chiesto a Micaela Frulli, Professoressa ordinaria di Diritto Internazionale presso il Dipartimento di Scienze Giuridiche dell’Università di Firenze, di aiutarci a leggere con rigore giuridico — ma senza rinunciare alla profondità etica — alcune delle questioni più urgenti del nostro tempo: dalla definizione di genocidio alla crisi delle istituzioni internazionali, dal ruolo dei negoziati alla tensione tra giustizia e potere. Ne è nata un’intervista intensa, che interroga il diritto là dove sembra più fragile, ma anche più necessario.

"Credo che sia importante parlarne di queste cose e non sentirci impotenti, perché questo è quello che vuole chi manipola il diritto, chi lo vuole bipassare, lo vuole aggirare. Teniamo duro sul fatto che c'è, funziona e dobbiamo conoscerlo e provare a farlo utilizzare ogni volta che è possibile"
Professoressa Frulli, la ringrazio a nome di tutti gli altri colleghi della laboratorio, anche del nostro presidente il professore Gorassini e della professoressa Busacca che con me lo coordina, perché la sua presenza e il suo contributo per noi sono un valore aggiunto straordinario. Non solo per la sua competenza e per il suo approccio scientifico e formativo al diritto internazionale, ma anche per quella tensione etica che emerge dai suoi interventi pubblici che secondo noi offrirà una lettura del diritto come uno strumento di responsabilità collettiva.
Chiaramente non c'è bisogno di presentazioni, la professoressa Frulli è ordinaria di diritto internazionale all'Università di Firenze, è esperta di diritto internazionale, di diritto umanitario, di tutela dei diritti umani. Ha dedicato la sua ricerca ai crimini internazionali, al ruolo della giustizia globale nella protezione delle vittime. Noi ci auguriamo di poterla avere prossimamente qui a Reggio Calabria al Laboratorio e all'Università Mediterranea, per gli studenti e per gli avvocati e i mediatori del Foro reggino.
Sono tantissime le cose che la professoressa Frulli ha fatto, ha ricoperto moltissimi incarichi come consulente giuridico anche per governi africani, organizzazioni internazionali, ha collaborato pro bono con la procura di Milano e con i relatori speciali dell'ONU, dal 2023 è membro della commissione ministeriale per la redazione del nuovo manuale di diritto umanitario per le forze armate italiane, destinato a guidare la formazione e l'operatività militare nel rispetto delle norme internazionali, una cosa che rientra nel suo impegno etico. Nel 2025 ha partecipato alla missione della Carovana della pace al valico di Rafha insieme a molti giornalisti, europarlamentari e operatori umanitari ribadendo il ruolo del diritto internazionale come strumento di responsabilità e anche come testimonianza attiva. È molto riduttiva la presentazione e la ringrazio di aver accettato il nostro invito.
Buon pomeriggio, sono io che ringrazio voi per il vostro lavoro e anche per questo invito e per queste gentili parole; perché la presentazione è più che adeguata e sono molto contenta di poter parlare perlomeno da remoto con voi per questo scambio di visioni, questa intervista in attesa di venirvi a trovare presto al laboratorio.
Professoressa, nel suo insegnamento e anche nei suoi scritti, lei ha più volte sottolineato l'importanza di un uso corretto giuridicamente fondato delle categorie penali internazionali. In una recente intervista lei ha dichiarato che il genocidio non è un'opinione. Nel dibattito pubblico c'è molta confusione che forse rischia di oscurare la portata normativa e delle implicazioni processuali delle condotte degli Stati nei teatri di guerra. Termini come genocidio, crimini di guerra, crimini contro l'umanità spesso vengono usati come sinonimi o comunque sono resi interscambiabili; invece nel diritto internazionale hanno dei confini precisi. Può aiutarci, preliminarmente, quali sono le differenze sostanziali tra il genocidio, crimini di guerra, crimini contro l'umanità? E soprattutto come si accerta giuridicamente il dolus specialis, l'intento genocidiario, che rappresenta la soglia più alta di responsabilità?
Come diceva giustamente lei, spesso si fa confusione fra queste categorie; si tende a mettere tutto sullo stesso piano, mentre queste categorie di violazioni gravi del diritto internazionale, che sono anche crimini internazionali, corrispondono a logiche diverse. Anzitutto vorrei dire che quando parliamo di crimini di guerra, crimini contro l'umanità e atti di genocidio noi ci focalizziamo sulla dimensione della responsabilità penale individuale; però queste gravi violazioni del diritto internazionale, in realtà, comportano un doppio livello di responsabilità: una responsabilità statale, degli organi statali o degli organi di entità di gruppi armati che partecipano a un conflitto armato, anche se non hanno natura di enti statali, e allo stesso tempo la responsabilità dei singoli individui, dei singoli militari, dei singoli soldati o dei privati ed eventualmente dei leader che hanno ordinato la commissione di questi crimini. Quindi sono due piani diversi. Quando parliamo di crimini noi ci collochiamo nel contesto della responsabilità penale internazionale. E queste prime definizioni di crimini di guerra e crimini contro l’umanità ce le abbiamo avute nello Statuto del Tribunale di Norimberga. La prima definizione di crimini di guerra e di crimini contro l'umanità la troviamo nello Statuto del 1945, che ha creato il Tribunale militare internazionale di Norimberga. Insieme a queste due categorie c'era in quello Statuto anche il crimine contro la pace, quello che oggi noi chiamiamo crimine di aggressione; che è quello di cui si è reso responsabile Putin con altri alti ufficiali russi nell'aggressione contro l'Ucraina del 2022. Ma sono molti altri, purtroppo, nella storia.
Il crimine di genocidio, invece, viene definito giuridicamente qualche anno più tardi. Bisogna aspettare il 1948 perché la definizione di genocidio venga inserita nella convenzione di cui si parla tanto in questi tempi, la Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio, che viene adottata dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 9 dicembre del 1948.
Un passo indietro: i crimini di guerra, quelli che noi abbiamo chiamato nel 1945 crimini di guerra, per la verità c'erano già prima, esistevano già; non si chiamavano così, non venivano definiti crimini di guerra, ma c'era già la possibilità di far valere una responsabilità penale per violazioni gravi del diritto; si chiamava una volta Diritto dei conflitti armati. Ora lo chiamiamo Diritto internazionale umanitario. È già dalle convenzioni dell'Aja di fine 800, primi del 900, che si prevedeva la possibilità di far valere la responsabilità penale.
Cosa cambia? Cambia il fatto che adesso si decide di farla valere di fronte a un organo internazionale; quindi quella responsabilità che prima veniva fatta valere di fronte ai tribunali militari, alle corti marziali, dal 1945 in poi diventa una responsabilità che si forma sul piano del diritto internazionale, quindi può essere fatta valere di fronte a organi internazionali. Le altre categorie invece sono nuove: i crimini contro la pace, i crimini contro l’umanità, e hanno una logica ben precisa: queste categorie riflettono la necessità di tutelare beni giuridici diversi.
La categoria dei crimini di guerra, la proibizione delle violazioni gravi del diritto umanitario, attraverso una condotta delle ostilità che sia rispettosa di certe regole, che non diventi una guerra barbara senza nessun vincolo, tutela il rispetto di un certo principio di umanità, il fatto che non si usino mezzi o metodi di combattimento proibiti.
Con la categoria dei crimini contro la pace si tutela l'integrità territoriale e l'indipendenza politica degli Stati. Si vogliono vietare le aggressioni e si vuole sancire che è responsabile penalmente chi lancia una guerra di aggressione.
Con i crimini contro l'umanità, invece, si tutelano i diritti fondamentali della persona umana. Prendiamo l'esempio dell'omicidio: la stessa condotta può essere sia un crimine di guerra, perché è un omicidio condotto in violazione delle regole sulla condotta delle ostilità, ma può essere anche un crimine contro l'umanità perché magari è diretto contro la popolazione civile, che invece dovrebbe essere risparmiata per non ledere i diritti fondamentali degli individui, della popolazione civile. Come diciamo noi giuristi, il bene giuridico protetto è diverso, anche se poi troviamo la stessa condotta. Ed è giusto che sia così perché vogliamo tutelare valori fondamentali diversi. Senza considerare che la categoria di crimini contro l'umanità è stata particolarmente importante. La novità dell'introduzione della categoria crimini contro l'umanità è stata particolarmente importante perché per definizione i crimini di guerra si dirigono soltanto contro il nemico. Finché non abbiamo avuto una categoria come questa non avremmo potuto punire, ad esempio, i crimini dei tedeschi contro i tedeschi, dei polacchi contro i polacchi. Cioè potevamo punire soltanto i crimini commessi, anche ai danni della popolazione civile, ma nemica. Questo significa che se non avessimo introdotto questa categoria la Shoah non avrebbe potuto essere perseguita. La categoria dei crimini contro l'umanità si è resa necessaria anche per questo motivo, oltre che per tutelare un bene giuridico diverso, anche perché c'era un vuoto da colmare. Dopo le atrocità della Seconda Guerra Mondiale questo vuoto andava colmato ed è stato colmato con la categoria dei crimini contro l'umanità.
Il genocidio lo troviamo già nei lavori del Tribunale di Norimberga, perché lo si menziona con questo termine che è stato coniato dal giurista polacco Raphael Lemkin già nel 1944 in un volume relativo allo studio che portava avanti da anni e che ha completato proprio nel 1944. Il termine genocidio ricorre nelle arringhe del procuratore, ricorre nelle sentenze; quindi il termine era già stato utilizzato ma non avevamo ancora la categoria giuridica. La categoria giuridica viene definita in maniera precisa nei lavori delle Nazioni Unite della Convenzione del 1948. Da qui la definizione che ancora oggi è quella cui facciamo riferimento. È stata mutuata negli statuti dei vari Tribunali creati successivamente, come il Tribunale per l'ex Jugoslavia, per il Ruanda e, da ultimo, nello Statuto della Corte Penale Internazionale. La necessità di introdurre questo crimine da cosa deriva? È un po' una filiazione dei crimini contro l'umanità, è una specificazione. Perché i crimini contro l'umanità sono crimini diretti contro gli individui in quanto tali, quindi la logica è quella di preservare la tutela dei diritti umani vietando questo tipo di crimini (c'era la persecuzione, ad esempio, fra i crimini contro l'umanità), ma con il genocidio si vuole punire qualcosa di più specifico, cioè si vuole vietare una condotta diretta specificamente a distruggere in tutto o in parte un determinato gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso. Quello che si vuole sancire, che poi si riflette nel dolo specifico del genocidio, è l'intenzione di compiere una certa condotta, ad esempio l'omicidio per distruggere fisicamente o biologicamente un determinato gruppo. È il livello massimo di depersonalizzazione della vittima: io colpisco una persona, un gruppo di persone, non perché sono "quelle" persone, ma perché sono ebree, sono palestinesi, sono appartenenti a una certa religione.
I gruppi protetti sono quattro: nazionale, etnico, razziale, religioso. Il bene protetto è l'esistenza di un gruppo, il diritto ad esistere di un determinato gruppo, possibilmente il diritto ad esistere anche sulla sua terra, nel suo contesto, quello in cui ha sempre vissuto. Di questo recentemente se ne parla molto, perché non è solo un diritto ad esistere in un luogo, ma è un diritto collegato alla permanenza, a un certo ambiente, ai beni culturali, alle tradizioni che circondano e che radicano l'esistenza di un gruppo in un determinato territorio.
Questo crimine è definito in maniera molto specifica e noi erroneamente pensiamo sempre all’omicidio come condotta caratterizzante del genocidio, perché purtroppo si arriva a parlarne quando ci sono decine di migliaia di morti. In realtà ci sono cinque condotte tipizzate dalla definizione di genocidio che non prevedono la morte immediata dei membri del gruppo: abbiamo l’omicidio, che è la prima delle possibili condotte materiali del genocidio; ma poi abbiamo l’inflizione di sofferenze fisiche o mentali gravi ai danni dei membri del gruppo; il creare deliberatamente condizioni di vita che rendono impossibile la sopravvivenza dei membri del gruppo; impedire le nascite all’interno del gruppo; e trasferire forzatamente bambini da un gruppo all’altro.
Quindi sono cinque condotte molto differenti che non prevedono necessariamente la morte immediata ma che mettono in prospettiva la morte del gruppo. Se noi pensiamo a contesti come quelli che abbiamo sotto gli occhi in cui si distrugge tutto ciò che può garantire la sopravvivenza di una popolazione — gli ospedali, i centri di assistenza — si impedisce l’arrivo degli aiuti umanitari; siamo in una situazione in cui si può ragionevolmente parlare di creare condizioni che rendono impossibile la sopravvivenza di una popolazione.
Queste condotte devono essere accompagnate dal dolo specifico, che è quello a cui mi riferivo prima. Cioè l’intenzione da parte di chi si rende colpevole di atti di genocidio di distruggere in tutto o in parte un determinato gruppo. È chiaramente molto difficile da dimostrare il dolo specifico. Come si dimostra? Nei casi più “fortunati” ci sono dichiarazioni esplicite, come nel caso della Germania nazista in cui avevamo i piani scritti per la soluzione finale, i progetti di eliminazione, e questo tipo di situazione semplifica il lavoro di prova dell’intento. Quando non abbiamo dichiarazioni esplicite scritte o anche solo rese alla stampa o sui media — e questo ce lo dice la giurisprudenza dei Tribunali speciali della ex Jugoslavia e del Ruanda — noi abbiamo una serie di strumenti per verificare l'esistenza dell'intento; in particolare, quando si verifica un contesto in cui ci sono violenze strutturali e ci sono tutta una serie di elementi che ci portino a pensare che ci sia quell'intento anche se non è dichiarato espressamente, ad esempio il fatto che vengano colpiti sistematicamente certi villaggi in cui risiedono i membri di quel gruppo, o il fatto che vengano rasi al suolo tutti i monumenti e i beni culturali e ciò che può essere ricollegato alla cultura di un determinato gruppo, il fatto che ci siano violenze sessuali di natura sistematica contro le donne di quel gruppo — lo stupro etnico (il Tribunale per il Ruanda ci ha detto che lo stupro può essere un atto di genocidio, eppure non troviamo lo stupro tra le cinque condotte del genocidio) — e tutta una serie di elementi contestuali da valutare che portano a concludere che anche se non abbiamo dichiarazioni espresse possiamo rintracciare l'intento genocidario. La soglia probatoria è alta e non si può prendere alla leggera: è un crimine molto grave e va dimostrato oltre ogni ragionevole dubbio sul piano del diritto penale che quella persona aveva l'intento genocidario o comunque che era consapevole di essere all'interno di un piano in cui si stava praticando la distruzione sistematica di un gruppo. Noi abbiamo una giurisprudenza che ci aiuta.
È doveroso distinguere fra le varie categorie di crimini sia perché riflettono la tutela di beni giuridici diversi e di valori fondamentali diversi, sia perché sono diversi gli standard probatori, sia perché sono diversi gli elementi che dobbiamo prendere in considerazione; ma non c'è una gerarchia fra questi crimini. Noi siamo abituati a parlare del genocidio come il crime of crimes, il crimine dei crimini, e questo perché simbolicamente è sconcertante l'idea dell'annichilimento, della distruzione totale di un gruppo, dell'eliminazione dalla faccia della terra, come si sono proposti nel passato alcuni leader; ma non è che i crimini contro l'umanità non siano altrettanto gravi o che i crimini di guerra soprattutto su scala massiccia non siano altrettanto gravi. Questa gerarchia non c'è negli strumenti della giustizia penale e neanche nella giurisprudenza. E questo mi sembra importante sottolinearlo perché non è che se noi non possiamo accertare che c'è stato un genocidio, va tutto bene. È importante definire precisamente e cercare di contestare il crimine preciso, ma ci sono diverse possibilità per inquadrare violazioni gravi del diritto internazionale e per far valere la responsabilità sul piano del diritto penale e dobbiamo, nel contesto in cui vediamo atrocità di massa, provare a mettere in campo tutte le possibilità.
Questo ultimo passaggio mi ha fatto venire in mente un'intervista che lei aveva rilasciato qualche tempo fa in cui aveva detto che non dobbiamo cadere nella trappola dei paragoni storici, perché non esiste una gerarchia negli orrori. Lo diceva a proposito di Gaza. A Gaza sono morte 60.000 persone, forse di più, qualcuno oltre che di genocidio parla di ecocidio per tutto quello che lei ha detto prima, per lo sradicamento degli ulivi che rappresentano l'identità, e colpisce che nel dibattito che si è acceso ultimamente, l'opinione pubblica si soffermi su queste categorie cercando di stabilire di cosa si tratti; ma intanto sul campo la gente continua a morire e noi non siamo capaci di dare un argine.
Ogni genocidio è fatto a modo suo e l'abbiamo visto drammaticamente con il Ruanda, in cui nel giro di pochissimi mesi, meno di 4 mesi, è avvenuto il massacro di più di un milione di persone fondamentalmente a colpi di machete, cosa completamente diversa da quella che era accaduta con le camere a gas e con i forni crematori. Anche per questo io metto sempre sull'avviso di non fare paragoni storici. I paragoni storici non ci servono: noi adesso abbiamo una categoria generale astratta. Come sempre la legge ci dà un contenitore che noi dobbiamo capire se possiamo applicare al caso concreto, ma senza andare a cercare di rintracciare caratteristiche che ci sono state in crimini gravissimi o genocidi compiuti nel passato e che non possiamo ritrovare nei casi che ci troviamo di fronte. Il paragone lo può fare lo storico, mettendo in prospettiva e guardando differenze e analogie fra situazioni in cui si sono compiuti crimini di massa; ma per quanto riguarda il lavoro del giurista è diverso: ogni caso deve essere valutato in base alla normativa che abbiamo a disposizione. Nel momento in cui si andrà a valutare la responsabilità saranno i giudici che dovranno valutare gli elementi di prova che si sono riusciti a raccogliere. Però ci tengo a dire una cosa, perché una delle contestazioni che sento sempre è: "ma non si può dire genocidio finché non c'è stata una sentenza di tribunale". No: non si può dire che qualcuno è responsabile di genocidio finché non c'è stata una sentenza del tribunale. Ma io, con i miei strumenti di giurista, posso valutare se, in base al mio parere — come ha fatto ad esempio la commissione d'inchiesta delle Nazioni Unite relativamente a quello che sta accadendo a Gaza — sulla base degli elementi di fatto, sulla base di quello che io posso valutare e sulla base delle prove che ho raccolto, posso dire: per me questo in corso è un genocidio. Altro è il discorso di accertare le singole responsabilità, le responsabilità dei singoli o la responsabilità statale. Sono due piani diversi, ma non è che non si può parlare di genocidio finché non c'è una sentenza del tribunale. Facendo questo discorso arriveremmo all'assurdo per cui noi dovremmo dire che la Shoah non è un genocidio, perché, come dicevo prima, nello Statuto di Norimberga non c'era ancora la categoria di genocidio e l'abbiamo introdotta dopo e, in realtà, i nazisti non furono processati per genocidio. Allora questo ragionamento non ci porta lontano: dobbiamo mantenere un atteggiamento da studiosi, da giuristi. Un conto è la prospettiva dello storico, che ha anche un'interpretazione diversa della nozione di genocidio e la mette in prospettiva temporale e quindi può applicarla anche retrospettivamente, ad esempio, al genocidio degli armeni. Va benissimo parlare del genocidio degli armeni dal punto di vista di uno storico; io, come giurista, non potrei farlo perché non c'era la categoria giuridica al momento in cui c'è stato il massacro degli armeni. È importante distinguere i piani, mentre purtroppo si tende a fare confusione, a sovrapporli e quindi a creare un dibattito un po' inutile mentre le persone muoiono a migliaia quotidianamente. C'è anche un'altra cosa che mi è capitato di sentirmi dire: "ma perché vi fissate con il genocidio? Se sono crimini di guerra o crimini contro l'umanità non sono altrettanto gravi?".
Certo! L'ho detto anch'io e lo ribadisco: bisogna valutare tutte le possibilità di far valere le responsabilità per tutti i tipi di reato che abbiamo a disposizione. Ma per quanto riguarda la responsabilità statale il discorso è diverso, perché la responsabilità statale può essere fatta valere, al momento, molto più facilmente — tra mille virgolette — per il genocidio. C'è una clausola contenuta nella Convenzione sul genocidio, all'articolo 9, che dà automatica giurisdizione alla Corte Internazionale di Giustizia, consentendo a uno Stato, tra tutti i contraenti della convenzione, di citare in giudizio gli altri Stati nel caso in cui ci sia il sospetto di violazione della convenzione. È questo il motivo per cui vediamo tutti questi casi sul genocidio arrivare alla Corte. Non perché siano tutti fissati con il genocidio, ma perché c'è una clausola giurisdizionale che consente di citare in giudizio gli altri Stati. La convenzione sui crimini contro l'umanità non ce l'abbiamo ancora, e quindi questa clausola non ce l'abbiamo; le Convenzioni di Ginevra ce l'abbiamo, ma non hanno una clausola di giurisdizione obbligatoria della Corte di Giustizia. Quindi, sul piano della responsabilità statale ci si focalizza più sul genocidio perché abbiamo uno strumento che possiamo provare a far valere e anche perché c'è un obbligo di prevenzione, anche questo lo voglio sottolineare. La Convenzione sul genocidio non prevede solo l'obbligo di non commettere atti di genocidio che ricade sugli Stati e sugli individui — perché gli Stati hanno l'obbligo di criminalizzare il genocidio nell'ordinamento interno — ma anche un obbligo di prevenzione del genocidio che quindi investe anche la fase precedente, auspicabilmente il momento in cui si arriva a commettere atti di genocidio e che vede coinvolti tutti i contraenti. Penso che sia importante insistere sul genocidio perché qui abbiamo una fattispecie chiara di obbligo di prevenzione che dovrebbe costringere tutti gli Stati ad agire per fare molto di più di quello che in realtà fanno per fermare uno Stato che è potenzialmente in procinto di commettere atti di genocidio.
In molti contesti, accademici, mediatici, civili, anche per quella confusione che si fa e per la polarizzazione che si è creata nel dibattito intorno all'Ucraina ed intorno a Gaza, si registra una sfiducia crescente nei confronti dell'efficacia delle istituzioni internazionali. L'ONU, la Corte Penale Internazionale, vengono percepiti sempre di più come inerti o impotenti. Dal punto di vista del diritto internazionale quali sono i fattori che alimentano questa percezione e in che modo legittimità e l'efficacia degli organismi internazionali può essere rafforzata?
Comincerei con un'osservazione di carattere generale: le organizzazioni internazionali e tutti gli organi delle organizzazioni internazionali, ad esempio la Corte Internazionale di Giustizia è un organo dell'ONU, la Corte Penale Internazionale è un'organizzazione a sé stante creata con uno statuto, con un trattato ad hoc e sono create e mantenute in vita dagli Stati, che poi sono quelli che siedono anche negli organi, nell'Assemblea Generale dell'ONU, nel Consiglio di Sicurezza, che mandano i loro delegati, che votano le risoluzioni o non votano le risoluzioni. Quindi, le organizzazioni internazionali non sono supergoverni; nella maggior parte dei casi non hanno poteri e non possono imporre la propria volontà a quella degli Stati che le compongono. Sono enti di cooperazione fra gli Stati. Hanno, a volte, la possibilità di adottare delle decisioni che vincolano gli Stati; però sono possibilità piuttosto limitate. Cosa significa questo? Significa che le organizzazioni internazionali, inclusi i tribunali, funzionano bene soltanto se c'è la volontà politica degli Stati di farli funzionare. Quindi, se i poteri che sono stati conferiti a queste organizzazioni si riesce effettivamente a farli esercitare da parte di questi organi, se non si ostacola il funzionamento di questi organi, se, una volta che sono state emesse — faccio l'esempio — delle sanzioni economiche, che tante volte il Consiglio di Sicurezza negli anni ha decretato nei confronti di vari Stati che avevano violato la Carta, se gli Stati non le rispettano, non le non implementano, non le attuano, e addirittura bisogna creare i comitati di monitoraggio per controllare se gli Stati rispettano o no le sanzioni, capiamo che se noi facciamo le regole, cerchiamo di avere dei meccanismi per attuare il diritto ma poi non li rispettiamo, non si va molto lontano. Addirittura, ora siamo anche un gradino oltre, perché ora siamo al momento in cui alcune organizzazioni internazionali non soltanto non godono di un sostegno adeguato degli Stati (come il sostegno finanziario; c'è chi toglie i fondi): se gli togliamo l'aria per respirare, non respirano i tribunali. A maggior ragione, i tribunali penali funzionano se c'è la cooperazione da parte degli Stati.
Antonio Cassese, che è il mio maestro, diceva sempre che sono giganti coi piedi d'argilla, perché i tribunali internazionali camminano sulle gambe degli Stati: se gli Stati non gli danno gambe i tribunali non vanno molto lontano. Ed è così un po' per tutte le istituzioni internazionali. Ora, come dicevo, siamo arrivati a un gradino oltre: siamo arrivati all'amministrazione statunitense che addirittura ordina sanzioni contro la Corte Penale Internazionale. Siamo arrivati non soltanto alla non cooperazione — e questa è una storia vecchia; gli Stati Uniti non hanno mai aderito al trattato che crea la Corte Penale Internazionale, non l'hanno mai voluta, non hanno mai collaborato — ma ora si arriva addirittura a cercare di minare la possibilità per questo organo di fare il suo lavoro, di garantire l'attuazione dei mandati d'arresto, l'attuazione della giustizia penale internazionale. Questi meccanismi possono funzionare solo laddove c'è una volontà da parte degli Stati che li compongono di farli funzionare e dove c'è una volontà di farli funzionare in tutte le situazioni, perché un altro dei problemi che abbiamo visto, purtroppo — e questo lo si è visto bene negli ultimi anni — è il doppio standard; cioè un volere ribadire l'importanza di certe regole, di certi strumenti, quando questi strumenti ci servono per colpire qualcuno, il nostro nemico, uno Stato che non è nostro alleato, ed invece sminuirli, metterli da parte, criticarli quando questi funzionano contro un nostro alleato, contro uno Stato "amico".
Questo lo abbiamo visto chiaramente nelle crisi degli ultimi anni, per esempio, rispetto alla Corte Penale Internazionale. Quando c'è stata l'aggressione russa dell'Ucraina si è visto un moto di incredibile sostegno alla Corte Penale Internazionale perché procedesse con le indagini, un incredibile moto di sostegno concreto perché ci sono stati i finanziamenti a pioggia che sono stati dati alla Corte perché eh facesse indagini efficaci, veloci e rapide. Nel contesto del conflitto in Ucraina si sono messi a disposizione esperti, forze di polizia e gli Stati Uniti, per la prima volta — io non credevo alle mie orecchie — lodavano l'esistenza della Corte, cosa che non era mai successa nei molti anni precedenti. Addirittura c'era stato quasi un moto di avvicinamento degli Stati Uniti alla Corte Penale Internazionale che sembrava fuori da almeno da ogni cosa che avevamo sentito prima. Sembrava un momento quasi di successo del diritto internazionale, di insperato successo e di insperata popolarità del diritto internazionale e dei meccanismi della giustizia internazionale. Poi, poco dopo, quando siamo arrivati all'infausta data del 7 ottobre 2023 con l'inizio della risposta israeliana che ancora oggi si protrae, è cambiato completamente il quadro. A quel punto non c'è stato nessun sostegno alla Corte per quanto riguarda le indagini relative alla situazione in Palestina che erano già aperte. Vorrei ricordare che la Corte Penale indagava sulla situazione dei possibili crimini commessi in Palestina già dal 2021; c'era un fascicolo aperto. Non c'è stato nessun sostegno finanziario; anzi, abbiamo visto molta reticenza nel provare a mettere un freno al comportamento del governo israeliano, nel provare richiamarlo a non compiere gravi violazioni del diritto internazionale che sono sotto gli occhi di tutti. Al di là di come le definiamo, c'è un quadro gravissimo di violazioni del diritto internazionale compiute in questi due anni di campagna militare israeliana a Gaza. L'hanno detto decine di organi di organizzazioni internazionali governative e non governative, esperti, giornalisti, quello che abbiamo potuto vedere anche da indagini giornalistiche la maggior parte fatte da remoto da giornalisti palestinesi che ci hanno rimesso spesso anche la vita. L'atteggiamento è stato completamente diverso. Questo doppio standard è letale per l'efficacia dei meccanismi di attuazione del diritto internazionale, perché se noi facciamo passare l'idea che questi meccanismi devono funzionare soltanto quando ci pare, quando funzionano contro i nemici e non contro gli amici, finiamo per svuotare di significato le regole, per svuotare di significato anche questi meccanismi.
Io penso che non ce lo possiamo permettere. Siamo in un momento molto pericoloso, molto rischioso, perché non è in gioco soltanto il destino di queste popolazioni che sono in situazione di conflitto e che pure sarebbe già abbastanza — insomma il destino dei palestinesi, degli ucraini — ma è in gioco la tenuta del sistema di regole sorto dopo la Seconda Guerra Mondiale e faticosamente costruito negli anni, che aveva messo al centro la tutela dei diritti fondamentali, il divieto di certi crimini e che ora scricchiola per colpa degli Stati. Ripeto: non perché questi meccanismi sono diventati improvvisamente inefficienti, ma perché si stanno un po' svuotando da dentro senza garantirgli la possibilità di funzionare, di fare il loro lavoro.
Due anni fa ho intervistato il Presidente della Camera di Conciliazione e Arbitrato dell'OSCE, il professor Decaux; lei ha usato un'espressione che mi ha richiamato quello che lui diceva, cioè che la Camera arbitrale è una sorta di cassetta degli attrezzi a disposizione degli Stati; però se gli Stati non ci mettono mano e questi attrezzi non li usano è evidente che nessun tipo di strumento neanche preventivo, può servire per la risoluzione di un conflitto. La cassetta degli attrezzi è un po' come gli organismi di cui le parlavo: se nessuno Stato coopera e lo utilizza è veramente difficile. Lei ha citato e Cassese, che è il suo maestro e l'ha accompagnata anche in questa sua riflessione sul male radicale e sul ruolo che ha anche il diritto internazionale. Nella postfazione della riedizione de L'esperienze del male lei dice che Cassese non ha mai temuto di mettere a nudo la debolezza del suo credo da giurista. Nel libro c'è un episodio che mi colpiva molto in questa intervista del professore Cassese: lui dice di avere capito veramente il male radicale nella stanza 601 di un carcere dell'Aja, quando sulle pareti tra le varie scritte dei condannati a morte della resistenza olandese che venivano imprigionati dalla Gestapo polacca, ho letto quattro righe di Victor Hugo "da 6000 anni la guerra continua a piacere ai popoli litigiosi, eppure Dio si prende la briga ancora di creare stelle e fiori", una contrapposizione, un confronto tutto umano e giuridico senza retorica di una giustizia che fa i conti con la propria fragilità e che non si sottrae alla complessità ma che la attraversa. Le chiedo, proprio partendo dal ricordo del professore Cassese, come si può conciliare la tensione tra l'ideale giuridico e la sua fragilità di fronte al male radicale che a volte nell'opinione pubblica sembra impotenza di chi è preposto a giudicarlo?
Questa è una cosa che spesso viene fuori parlando del lavoro di occuparsi quotidianamente delle atrocità di massa, dei gravi crimini come ha fatto il professor Cassese, anche in prima persona, come giudice o in tanti contesti; è qualcosa che non si può fare completamente in maniera asettica perché siamo umani, quindi avere a che fare quotidianamente con esperienze che rappresentano la forma più brutale della violenza dell'uomo sull'uomo ti mette continuamente in discussione e ti fa anche interrogare sull'insufficienza del diritto, sull'incapacità del diritto di porre un freno a certi comportamenti. Ci sono momenti di alti e bassi; questo, secondo me, è inevitabile, fa parte del gioco. Il professor Cassese ogni tanto diceva che chi si occupa di queste tematiche fa la fatica di Sisifo, cioè tutti i giorni porta la pietra in cima alla montagna e la mattina dopo se la ritrova in fondo e ricomincia a spingere. Però, quando vogliamo provare a trovare un po' di ottimismo, ci diciamo che dobbiamo mettere le cose in prospettiva. Questo è quello che dico spesso anche di questi tempi ai miei studenti: noi dobbiamo pensare che quando si arriva al 1945, quindi allo spartiacque della Seconda Guerra Mondiale, si prova a impostare un nuovo ordine postbellico in cui si cambiano i paradigmi fondamentali che erano in vigore fino a quel momento: si cerca di vietare l'uso della guerra di aggressione, cioè si vieta in generale l'uso della forza come strumento di relazione internazionale; si mette l'uomo al centro perché, fondamentalmente, si comincia a dire che anche la violenza all'interno degli Stati, la violenza dei governi nei confronti dei propri cittadini, non può essere indisturbata e il diritto internazionale deve occuparsene, deve limitare e gli Stati si devono controllare tra loro nel rispetto dei diritti fondamentali anche dei propri cittadini.
Questi sono due cambiamenti che dire epocali è dire poco e sono recenti: sono avvenuti solo 80 anni fa. Se noi mettiamo il diritto internazionale in prospettiva fino al 1945, non dico che c'era legge della giungla, ma quasi. Chiaramente c'era stato un movimento di codificazione, che dall'800 in particolare va verso una codificazione di tanti settori, verso la creazione delle prime organizzazioni internazionali, ma fino a poco prima c'erano pochissime regole internazionali: quelle sullo scambio degli ambasciatori, sull'immunità diplomatica, alcune regole di base; ma non c'era un diritto internazionale ricco, sfaccettato e vincolante per gli Stati come quello che abbiamo costruito dal '45 a oggi. Quindi, se noi lo guardiamo rispetto a quello che c'era prima, ci accorgiamo in realtà che abbiamo conquistato tantissimo in questi 80 anni. Forse nessuno dei giuristi che hanno cominciato a lavorare alla stesura della Carta dell'ONU, alla Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo, avrebbe creduto di raggiungere così tanto in così poco tempo.
Dipende sempre da che parte lo guardiamo il bicchiere. Certo, noi vorremmo sempre di più; vorremmo che questo progresso fosse più rapido, che non ci fossero tutte le violazioni alle quali invece assistiamo, che non ci fossero momenti difficili come questo attuale in cui si mette in discussione anche il fatto di avere cambiato questi paradigmi; però non dobbiamo sposare la visione nichilista e dire che il diritto serve poco o che non abbiamo raggiunto risultati soddisfacenti, perché questo in realtà porta acqua al mulino dei detrattori del diritto internazionale, a quelli che dicono che tanto è uguale, che tanto non serve a niente: allora sì che lo distruggono questo sistema. Invece io penso che sia molto importante conoscerlo nel dettaglio il sistema, sapere tutti gli strumenti che abbiamo e che sono tantissimi. Se penso alle organizzazioni internazionali che abbiamo, alle decine di organizzazioni e a quanto è stato fatto, penso al sistema della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo che, nell'ambito del continente europeo — della regione europea intesa in senso ampio — vigila sull'attuazione della Convenzione; non è l'Unione Europea ma il Consiglio d'Europa, un consesso molto più ampio. Pensiamo a tutto quello che è stato fatto in quest'ambito; pensiamo all'impulso che la Corte Europea ha dato all'Italia, se vogliamo rimanere concentrati su di noi: se non ci fosse stata la Corte Europea, con alcune sentenze di condanna anche molto aspre nei confronti del nostro Paese, probabilmente non avremmo ancora una legge sulle unioni civili, probabilmente non avremmo introdotto il reato di tortura nel nostro Codice Penale. Noi dobbiamo provare a guardare le cose in una prospettiva più ampia e provare a guardare i risultati: quello che si è fatto, quello che dobbiamo preservare per non tornare indietro, per non tornare alla legge della giungla, a quello che c'era prima, consapevoli che non è semplice. Noi lo diamo per scontato a volte, ma non è tutto scontato quello che abbiamo acquisito; lo dobbiamo difendere in tutti i modi, lo dobbiamo conoscere e difendere senza fare il gioco di quelli che dicono che non serve a niente.
Serve! Ha raggiunto tanto; non ancora abbastanza, si potrebbe migliorare, certo, si potrebbe fare di più, certo; però intanto tuteliamo, preserviamo attentamente quello che abbiamo costruito e rivendichiamolo anche come società civile. Questo per me è molto importante. Cassese ci teneva molto ed è una cosa alla quale anche io credo molto. I governi sono i governi; dobbiamo attribuire loro le responsabilità. I governi però li leggiamo noi, li votiamo noi; almeno nei nostri Paesi che abbiamo questo privilegio di poter votare, di poter decidere, di poter incidere, facciamo sentire le nostre voci: usiamo gli strumenti democratici che abbiamo a disposizione per scegliere dei governanti rispettosi del diritto internazionale, che abbiano a cuore il rispetto delle regole, che si facciano carico degli obblighi che hanno assunto.
Per questo credo che sia importante parlarne, di queste cose, e non sentirci impotenti, perché questo è quello che vuole chi manipola il diritto, chi lo vuole bypassare, lo vuole aggirare. Teniamo duro sul fatto che c'è, funziona e dobbiamo conoscerlo e provare a farlo utilizzare ogni volta che è possibile.
Io arrivo alla mediazione da un percorso non giuridico, quello della mediazione umanistica ed è bella l'espressione del professore Cassese che diceva, da giurista, che la cosa in cui credeva di più era quella di potenziare la società civile internazionale. Quindi questa partecipazione, questo diritto che non è soltanto nelle aule dell'università e dei tribunali ma che deve poi contagiare davvero l'opinione pubblica perché possa, lui diceva, stigmatizzare i governi e imporre loro - che è un'espressione fortissima - che si assumano le loro responsabilità davanti al diritto internazionale. Quindi la ringrazio perché ci ha ricordato che è davvero importante. Ed è il lavoro di divulgazione che con il nostro laboratorio nel nostro piccolo proviamo a fare.
Questa è una cosa a cui teneva molto e anche io ci credo molto e sono convinta di questo: ognuno per quello che può. Tutto è importante, ogni contributo è importante, perché poi è la somma, è l'insieme. Lui spesso diceva che era bello, era importante avere dei punti di riferimento, dei grandi difensori dei diritti umani, Nelson Mandela, queste grandi figure che, lui diceva, ogni tanto usare come antidepressivo, perché si leggeva i pensieri di Nelson Mandela piuttosto che Shirin Ebadi, ma che l'importante era il contributo anche piccolo che ciascuno può dare e il lavoro di rete; perché giustamente anche questo noi tendiamo un po' a — ed è naturale, perché abbiamo bisogno degli esempi da seguire e crearci degli eroi, delle figure paradigmatiche che simbolicamente rappresentano la giustizia — ma in realtà, come i giusti che salvarono gli ebrei, giusti che però se non avessero avuto una rete intorno che consentiva di nasconderli, di portarli da un posto all'altro, non avrebbero potuto salvare nessuno; pensiamo a Gino Bartali o mi viene in mente la rete delle staffette: era tutto un sistema di organizzazioni sotterranee, un sottobosco. Per cui poi noi identifichiamo la persona di punta, la figura, ma in realtà è tutti insieme che possiamo fare la differenza e questo Cassese lo credeva; me ne sono profondamente convinta anch'io, quindi il lavoro di base delle comunità locali, porta a porta, potremmo dire, è fondamentale. Quindi, grazie. Sono io che vi ringrazio.
Nel suo lavoro lei ha evidenziato più volte come il diritto internazionale disponga di una pluralità di strumenti per una risoluzione pacifica dei conflitti, la mediazione, la conciliazione, l'arbitrato, il ricorso agli organismi giurisdizionali internazionali. Le volevo chiedere dal punto di vista giuridico quali sono gli strumenti e i meccanismi che il diritto internazionale mette a disposizione per favorire la mediazione e la risoluzione pacifica delle controverse tra gli stati.
In realtà le possibilità sono tante. Quando guardiamo ai mezzi di soluzione delle controversie fra Stati ci sono due grandi categorie.
- I mezzi diplomatici, negoziali, che mirano a portare le parti a raggiungere un accordo con l'intervento o meno di un terzo. La forma più semplice è il negoziato diretto. Le parti, nel caso in cui abbiano un contrasto fra loro, si possono confrontare e vedere se trovano una via d'uscita.
Molto spesso, quando c'è una controversia fra Stati la comunicazione è difficile, per cui serve l'intervento di un terzo, che può essere molto limitato. Semplicemente fare quelli che noi chiamiamo buoni uffici, quindi trovare un luogo neutrale dove le due parti si possono incontrare, fare da canale di comunicazione fra due parti che non comunicano più tanto bene.
Oppure questo ruolo del terzo può diventare più incisivo: può diventare una mediazione. Il mediatore cosa fa? Il mediatore interviene nel merito della controversia; può proporre una soluzione; fare delle proposte, provare a vedere se riesce a raggiungere una convergenza di visioni delle parti. Il mediatore a livello internazionale può essere individuale, comunque sono figure autorevoli. Il mediatore potrebbe essere un capo di Stato; in passato abbiamo avuto mediazioni fatte dal Papa; può essere il segretario generale dell'ONU, che agisce come mediatore; in genere sono figure di un certo spessore.
Oppure, addirittura, la conciliazione. La conciliazione è ancora un passetto oltre, perché di solito avviene tramite una commissione. Si nomina un gruppo che elabora delle proposte molto più dettagliate e quindi fa già una sorta di lavoro istruttorio molto più approfondito da proporre alle parti per vedere se raggiungono un accordo.
Però, quando si parla di mezzi diplomatici non si esce da questo schema dell'accordo: cioè il punto finale, la soluzione della controversia o del contrasto, può avvenire solo se le parti a un certo punto concordano su una soluzione, che se la siano trovate da soli, che il terzo li abbia aiutati più o meno, ci deve essere un punto d'arrivo in cui si sottoscrive un testo. Può essere un testo scritto, dipende dal tipo di controversia; può essere un risarcimento, perché ci può essere stato un illecito per cui la controversia riguarda un risarcimento, una somma di denaro. L'accordo può avere un contenuto diverso a seconda del tipo di controversia, però non si impone: il terzo non può proporre mai una soluzione; la può proporre, la può favorire, la cercare di farla maturare, ma non impone la propria volontà alle parti.
- Altro è il discorso dei mezzi giurisdizionali, quelli di cui abbiamo parlato anche prima, che sono fondamentalmente l'arbitrato e il regolamento giudiziale. Nel caso in cui si scelga questa strada, le parti vanno davanti a un terzo che però ha il potere di emettere una decisione vincolante. Le parti devono accettare la competenza del giudice, come dicevo prima. È per questo che abbiamo le controversie sul genocidio di fronte alla Corte, perché c'è una clausola, Non c'è un giudice naturale per le controversie internazionali, non c'è un giudice precostituito sempre disponibile; dipende dai contesti, per cui noi possiamo avere una serie di convenzioni in cui c'è la possibilità di rivolgersi a un giudice che è la Corte di Giustizia, ma può essere per esempio il Tribunale del Mare, per quanto riguarda il diritto del mare. Ci sono i tribunali in materia di investimenti. Per gli accordi, anche bilaterali, in materia di investimenti, abbiamo un centro di soluzione delle controversie, l'ICSID, che è deputato a risolvere le controversie anche tra investitori e Stati, ad esempio. Ci sono diverse possibilità e il tribunale può essere o precostituito, come nel caso della Corte di Giustizia, o stabilito ad hoc come nel caso del collegio arbitrale. Di fronte a una controversia gli Stati possono decidere di comune accordo di nominare un arbitro o un collegio arbitrale e di affidargli la competenza di decidere in maniera vincolante rispetto al punto di contrasto che li oppone uno all'altro.
In questo caso, appunto, la soluzione e l'esito sono diversi, perché una volta che gli Stati hanno consentito che un tribunale arbitrale, un arbitro o una corte eserciti la propria giurisdizione, non possono sottrarsi al verdetto, alla sentenza, devono dare il consenso preliminare, ma dopo devono accettare la sentenza della Corte o del Tribunale. A quel punto c'è una condanna che può arrivare e non ci si può sottrarre agli esiti della condanna, anche se alcuni Stati ci provano.
In linea generale, in realtà, questi meccanismi funzionano e hanno funzionato piuttosto bene. Si tende a sottovalutare perché, giustamente, mettiamo sempre l'accento sulle parti critiche, come dicevo prima, perché è ovvio, perché quelle bruciano, perché quelle sono da risolvere; ma noi abbiamo — basta andare sul sito della Corte di Giustizia e guarda il record dei casi chiusi — decine di casi di controversie di ogni tipo che sono stati risolti dalla Corte e che gli Stati hanno accettato, anche controversie a volte territoriali.
Sono meccanismi che funzionano, però bisogna credere in questi meccanismi, bisogna volerli utilizzare.
Si torna al discorso prima: bisogna volerli far funzionare, bisogna essere disposti a trovare una via d'uscita da una controversia insieme all'altra parte. È chiaro che abbiamo punti di vista diversi — e lo sapete meglio di me, visto che fate questo lavoro — ma ci vuole quel minimo di volontà per provare a incamminarsi verso una soluzione condivisa.

