Le parole che non so dire
di Tiziana Bianca Calabrò
Perdonatemi, ma ho fallito. Io la guerra non la so raccontare. Non ho le parole. Le parole esatte intendo. Ho cercato un discorso di senso, ma ne è venuto fuori un avvicendarsi di frasi senza bussola. Le immagini e i pensieri si sono affollati in testa e mi sono sentita un’ impostora, ogni volta che ho tentato di scrivere qualcosa di profondo o sensato. Ma la natura stessa della guerra non è né profonda, né sensata, né toccante. Cercavo più l’estetica che la verità, ma io la verità della guerra non ce l’ho, non la posso avere. Non io. L’unica vera guerra che combattiamo tutti e tutte da questa parte del mondo è con noi stessi e noi stesse. La sola verità sta nel titolo del mio discorso. Le parole che non so dire. Quasi profetiche. Perché non è a me che avreste dovuto chiedere ma a chi della guerra ne sa la carne e il sangue. La guerra ci viene offerta come un’eucarestia dalle immagini che scorrono sul cellulare. Dai reporter che sono tra le strade in rovina dei luoghi dei conflitti. Dalle testimonianze di medici, giornalisti e giornaliste, volontari e volontarie. Questo so, oltre alle narrazioni di mia madre sulla seconda guerra mondiale, arrivate a me leggendarie come tutto ciò che è lontano e passato, come la letteratura dei vincitori.
Non so quali siano le parole nude della guerra, è una soglia davanti alla quale mi fermo. Noi qui diviamo nella geografia della salvezza quella in cui ogni conflitto è narrazione e non ferita, anche se già negli anni della scuola sentivo che il mondo fosse da sempre un campo esteso per lo sterminio dell’innocenza. Dove le parole smettono di significare.
Nei nuovi teatri dell’indecenza c’è un continuo richiamo allo sguardo, più che alla parole. Vieni e vedi, come and see, come il titolo di un film straziante che mostra l’orrore dei nazisti attraverso lo sguardo di un ragazzino bielorusso, i cui contorni del volto all’inizio innocente, si trasfigurano nel mutismo folle di un vecchio. Ma il regista che lo narra aveva dentro di sé la memoria del bambino traumatizzato. Ciò che racconta, lui lo ha visto e sentito sul corpo.
C’è un paradosso nella Storia che dimentica se stessa, quando l’uomo ha il potere della violenza e del sopruso sull’altro e lo usa per annientarlo, ritenendolo cosa, straccio, antimateria, in una ripetizione di ferocia.
Il nostro linguaggio diventa misero dinanzi ai fatti e ai luoghi offesi. Come a Gaza
Chiedete meglio alla polvere, quando ogni palazzo e casa, scuola, moschea, chiesa, supermercato, ospedale che crollano per lo scoppio dei missili, diventano aria infetta che si respira. E ottura il fiato e i pori e la pelle si ulcera.
Più di me può raccontare l’odore insostenibile dei corpi decomposti, delle donne, dei bambini e degli animali, sepolti sotto le macerie, la sepoltura indecente della guerra.
Chiedetelo alle mosche eccitate dalla morte a centinaia, che mordono e banchettano e fanno festa sulla disperazione dei corpi, vivi o morti per loro non c’è differenza, purché si mangi purché si danzi ronzando. Cambi appena prospettiva ed ecco che la guerra diventa un affare felice.
Chiedetelo ai vestiti sporchi e alle scarpe rotte, alla pelle dei piedi aperta e alle ferite infette.
Chiedetelo al rumore. La colonna sonora del male, quando dal cielo non arriva il suono della grazia di dio, ma dei missili, chiedetelo alle grida, ai pianti, allo scavare delle mani, alle sirene della autoambulanze e alla voce dei bambini anche quella inconsolabile e deformata dall’orrore.
I bambini a Gaza segnano il loro nome sul braccio per essere riconosciuti da morti perché sanno di non essere al sicuro e che sicuro non è più casa non è giaciglio fonte madre padre, fratello, sorella, scuola, ospedale.
Chiedete le parole al loro cuore che cresce rachitico perché ha il battito della rassegnazione, o forse neanche lui può comporre suoni di senso, perché certe pietre sono così pesanti che solo il silenzio aiuta a portarle.
Quali sono le parole per dire tutto questo.
Chiedetele ai luoghi in cui il male arriva e depreda, tortura, stupra e uccide, nella sottrazione continua di umano, perché l’altro è un parassita da annientare in un ribaltamento di logica dove la pietà ha smesso di farsi carne, dove l’umiliazione precede lo sterminio.
La guerra e l’orrore hanno le parole mozzate, è impossibile immaginarne il suono, è un suono che fa scandalo, è blasfemia, che lascia macerie di un prima e un dopo e in mezzo una frattura incolmabile.
Non chiedetelo a me che da qui ho la concessione del pianto provvisorio, della commozione filtrata da uno schermo.
Chiedetelo meglio ai morti. Abbiamo secoli di morti dell’assurdo, per la ferocia di chi ridisegna per un capriccio di potere i confini del mondo, affidandosi all’obbedienza dell’odio, l’odio da tenere affamato come un cane a cui fare venire la bava. La parola nemico è l’invenzione del potere per nutrire sé stesso, per garantirsi un gregge devoto e obbediente, una manovalanza gratuita. E accade anche quando non c’è il parossismo della guerra. È la strategia di una politica nera.
“Neppure io immaginavo che fosse questa la guerra... E' come il diluvio” scrive Corrado Alvaro. “Si torna a uno stato primitivo come tra selvaggi. L'ingegno dell'uomo conta fino a un certo punto; quello che conta è l'istinto di milioni di uomini... Nessuno sa quello che succede e tutti stanno lì come se fossero stati creati sul posto. E’ un incubo, in cui la faccenda di vivere è l'ultima preoccupazione. Sembra di stare in una latrina”
Chiedete le parole alla pazzia che viene dalla fame, dalle interminabili file per avere cibo, dalla visione dei corpi straziati, dalla sottrazione della dignità, perché se non c’è acqua e non ci sono i bagni si diventa soltanto carne e feci e urina e sangue.
Chiedetelo alle madri che sentono ancora il peso dei corpi dei bambini, anche se li vedono morti sul selciato, quelle di oggi quelle di tutti i tempi, come sempre è uguale il pianto dei vecchi a cui viene sottratta la possibilità di una morte ordinaria. Come il pianto degli studiosi di Lublino che vedevano i loro libri sacri bruciare mentre una banda suonava musica allegra e i soldati tedeschi ridevano loro in faccia. I torturatori scelgono di fare il proprio lavoro come se non ne conoscessero la menzogna.
Chiedetelo a chi nonostante l’orrore continua a non confondere gli oggetti con gli esseri umani. A chi va e vede e immerge le dita nel dolore . Quelli a cui se domandi” “Perché lo hai fatto”, ti rispondono: “Avevo forse altra scelta?”. È l’invito della materia a non essere mai sordi all’amore. Come la scelta delle contadine russe che a trenta gradi sotto zero stavano in piedi lungo gli argini del fiume Irtysh per lanciare ai deportati in Siberia tè, sigari, candele, banconote cucite nella rilegatura del Nuovo Testamento, lanciare benedizioni e canti. Tra di loro, in mezzo a quella carovana misera di prigionieri, c’era Dostoevskij che non dimenticò mai il gesto amorevole e pietoso delle donne di Tobol’sk. È grazie a questi gesti che nei condannati alla vita, resta un certo doloroso amore per il mondo.
Un giorno tutto questo sarà il nostro passato come quello degli altri popoli umiliati da altri uomini che non li hanno voluti riconoscere. Bisognerà comporre le fratture, la ferocia subita, onorare i vuoti e le mancanze, i destini incompiuti, anche se nulla, nulla cancella il male, perché come scrive Anne Michaels: “Nessuno potrebbe perdonare in nome dei morti. Nessun atto di violenza si risolve mai. Quando chi può perdonare non può più parlare, resta solo il silenzio”.
Fonti:
Motaz Aizaiza - Corrado Alvaro – Jennifer Guerra- Elem Klimov - Francesca Mannocchi - Anne Michaels – Bisan Owda - Francesca Romana Paci